IL WOKE: DAGLI USA CON FURORE, PASSANDO PER FRANCOFORTE.

Il cosiddetto wokismo nasce  negli Stati Uniti intorno al 2010 come movimento di lotta contro le discriminazioni razziali e l’ingiustizia sociale, innestandosi – per via diretta o indiretta – sugli insegnamenti dei filosofi della Scuola di Francoforte della seconda metà del ‘900,  che pur attestandosi nell’alveo del pensiero marxista contestavano ferocemente il regime sovietico e il ruolo della classe lavoratrice come agente primario della rivoluzione. Non è un caso che negli USA si tenda a parlare di “marxismo culturale”, e non di marxismo tout court, per identificare l’ideologia woke. 

Questa Scuola creò la cosiddetta teoria critica, che arrivò al punto di negare la necessità di abbattere il sistema capitalistico per liberare l’uomo dal bisogno e dalla servitù. 

“Non è tanto, e non è più, la proprietà privata dei mezzi di produzione a generare nuove forme di schiavitù, perché come si è visto nell’esperienza dell’Urss staliniana, l’abolizione della proprietà privata non porta ad alcun tipo di liberazione”, scrivono Adorno e Horkheimer nel loro “Dialettica dell’Illuminismo” del 1947.

Il giudizio dei francofortesi sulla capacità della massa lavoratrice di arrivare alla liberazione è spietato. “La regressione delle masse consiste oggi nella loro incapacità ad ascoltare con il proprio udito quello che non è mai stato udito, di toccare con le proprie mani quello che non è stato ancora toccato: una nuova forma di cecità che sostituisce tutte le cecità mitiche sconfitte”. Secondo un altro illustre rappresentante della Scuola, Herbert Marcuse, la società capitalista è una macchina capace di assorbire il potenziale rivoluzionario, “nella quale la classe operaia non rappresenta la negazione dell’esistente”. 

A seguito della caduta del Muro di Berlino e della fine del socialismo reale – perlomeno nell’Europa orientale- la teoria critica e altre visioni alternative del mondo, fino agli estremi dell’anarco capitalismo e similari, diventarono predominanti all’interno degli ambienti di cultura, forgiando le nuove generazioni di leader di sinistra e addensandosi infine nel “woke”. 

 

LA SESSUALITA’ COME ULTIMA FRONTIERA.

Il “wokismo” si è quindi diffuso nelle università nordamericane e, poi, negli atenei europei, attraverso la convergenza con le teorie di genere, il razzialismo, l’intersezionalismo, e nel solco della già citata teoria critica, come una contestazione della scienza, del sapere razionale, della storia, della tradizione umanistica e del pensiero universalista, considerati strumenti connaturati e funzionali ad una impostazione del pensiero, del linguaggio, dello studio che veicola strutture implicitamente atte a confermare e perpetuare un sistema di dominazione patriarcale, bianca, maschile e occidentale, che il woke identifica come il soggetto oppressore nei confronti della supposta nuova umanità libera da convenzioni. 

E’ molto interessante a mio avviso la saldatura tra quanto scriveva sulle pulsioni sessuali Marcuse nel 1964 nel suo “L’Uomo a una dimensione” e l’attuale visione sociale e antropologica del mondo woke. 

Marcuse sostiene la tesi che nell’inconscio si trovano i fondamenti biologici della libertà e di una nuova moralità, intesa come non repressione degli impulsi sessuali, che in una società egualitaria non verrebbero repressi ma orientati verso fini non distruttivi, artistici e umanistici. 

Questo impulso di libertà, latente nella coscienza dell’uomo viene definito Eros.

Marcuse identifica l’impulso sessuale di Freud con il concetto storico di libertà; trasformando l’idea di libertà in un concetto metafisico, che in quanto biologico è parte immanente della natura umana. 

A mio avviso, l’ideologia woke sta applicando metodicamente questo concetto, facendo uscire gli impulsi sessuali di ogni tipo dalla sfera privata dell’individuo, trasformandoli in un grimaldello di azione politica e culturale. 

In questo modo, la libera espressione di orientamenti e pulsioni sessuali – anche quelli più stravaganti, come il “furry” o simili – diventa un modo per “liberare” a livelli più profondi  l’uomo dall’oppressione della cosiddetta società tradizionale, identificata come il nemico numero uno della piena emancipazione umana. 

L’essere umano modellato dall’ideologia woke è una figura prometeica, che cerca di sfuggire alla sua identità “binaria” – divisa rigidamente da natura e società in maschi e femmine – riconoscendosi in decine di diverse possibili categorie,  mutando spesso identità a seconda del momento. 

 

In ambito italiano troviamo un precursore del wokismo nel controverso teorico degli studi di genere Mario Mieli, che già a metà degli anni ‘70 cercò di conciliare attivismo omosessuale e marxismo (interpretato secondo lo spirito del suo tempo). 

Mieli fece alcune uscite molto discusse, come quella che vorrebbe tutte le persone potenzialmente transessuali (transessualismo universale), se non intervenisse l’educazione imposta dalla società in età infantile, che provocatoriamente lui definiva “educastrazione”. 

In un periodo di feroci discussioni e provocazioni sull’identità sessuale (vedi quanto sopra detto riguardo le teorie di Marcuse), Mieli si spinse addirittura ad auspicare la liberazione dei bambini dalle suddette imposizioni sociali attraverso la pratica della pederastia da parte di adulti “consapevoli”, che lui definì “checche rivoluzionarie” nella sua opera “Elementi di critica omosessuale”. Le teorie di Mieli rappresentano una frangia estrema di questa ideologia, ma mantengono ad oggi una certa influenza nel dibattito politico-culturale del movimentismo di sinistra, specie quello legato alle subculture Lgbtq.

 

LA GHIGLIOTTINA DELLA  CANCEL CULTURE. 

Se la “liberazione” della sfera sessuale riveste un ruolo fondamentale nella visione antropologica della sinistra odierna, non è meno importante in questo senso la cancellazione di altri elementi in grado di identificare l’individuo in maniera netta e inequivoca: la lotta al concetto di nazionalità, intesa come senso di appartenenza a una comunità specifica, è ad esempio un altro cavallo di battaglia dell’ideologia woke, in parte figlio di una opinabile interpretazione dell’internazionalismo marxista del secolo scorso. 

A tale scopo ecco palesarsi la “cancel culture”, la cultura della cancellazione che tante polemiche sta creando in giro per il mondo. Pensiamo alle campagne contro le celebrazioni del Columbus Day negli USA, gli attacchi a statue o altri monumenti rappresentanti personaggi storici considerati “razzisti”, o “omofobi”, o “misogini” o quant’altro offende la sinistra liberal dominante oggigiorno. Attaccando i personaggi che hanno fondato o indirizzato – nel bene o nel male – una nazione, si attacca nella sostanza il cuore pulsante di quella data comunità, rimettendone in discussione la stessa identità. 

La cancel culture si è ormai diffusa a macchia d’olio in tutto il mondo, complice la rapidità e ampiezza d’azione dei social media, che sembrano favorire non poco questa epidemia di buonismo vero o presunto. Siamo arrivati al punto che l’Università di Cambridge, una delle più prestigiose del Regno Unito e dell’Occidente, ha proibito l’uso del termine “anglo-sassone” nel titolo della rivista pubblicata dal suo Dipartimento di Storia. 

La prestigiosa pubblicazione, intitolata originariamente  “Inghilterra Anglo-Sassone”, ha infatti cambiato  nome in “Inghilterra Alto-Medievale e i suoi vicini”, una pelosissima formula che dovrebbe portare a una decolonizzazione accademica, qualunque cosa ciò significhi. Con buona pace di Angli e Sassoni, i popoli che – piaccia o meno – fondarono l’Inghilterra. 

 

WOKE E CAPITALISMO. 

Il wokismo, nato e cresciuto in un contesto culturale profondamente materialista, propone una visione di società totalmente orizzontale, priva di slanci verso l’alto, di fughe verso una dimensione altra rispetto a quella di una società di individui atomizzati che stringono una sorta di patto sociale volto a non offendersi reciprocamente. 

Abbiamo già visto come la Scuola di Francoforte – persino quando l’Urss era all’apice della sua potenza – avesse abiurato la lotta di classe e il perseguimento del socialismo economico. Nel momento in cui la libertà diventa quindi un concetto destinato soltanto al soddisfacimento dei bisogni dell’individuo – per quanto in evidente rottura con il sistema di valori fino ad allora in voga – non c’è motivo per cui il capitalismo globalizzato non possa “contaminarsi” con le idee veicolate dagli intellettuali woke e, più in generale, della nuova sinistra liberale. 

 

D’altronde, con l’avvento della globalizzazione alla fine degli anni ‘90, gli obiettivi del capitalismo a marca occidentale sono diventati chiari a tutti: creare una governance mondiale, ossia un sistema di istituzioni internazionali capaci di influenzare in modo determinante l’economia, la cultura e la società di tutti i Paesi del mondo, instillando in ogni nazione lo stesso sistema di valori, le stesse regole di base e gli stessi precetti economici. 

La forte tendenza della sinistra contemporanea a destrutturare la realtà è molto più funzionale a tale scopo rispetto alla destra liberal-conservatrice, che per sua natura si oppone a eccessivi mutamenti  del tessuto socio-culturale.

La sinistra odierna d’altronde ha sviluppato l’ideologia woke basandosi sul rigetto della società preesistente: i suoi valori, i suoi principi fondanti, le sue ideologie (come abbiamo visto, non è rimasto escluso da questo processo lo stesso marxismo “tradizionale”).  La società “patriarcale, bianca, colonialista” che in questo schema di pensiero era strettamente legata al capitalismo industriale novecentesco, il quale è lo stesso che i nuovi “guru” del capitalismo globalizzato hanno cercato da subito di smantellare. 

In poche parole, la sinistra contemporanea appare come lo strumento  perfetto a servizio di un nuovo e aggressivo capitalismo che vuole operare in un mondo sempre più privo dei lacci e lacciuoli imposti dagli Stati, percepiti come entità ostili al loro “business”. 

Una risposta

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